lunedì 7 novembre 2011

Primo. Cambio.

La testa si reclinava regolarmente sul collo, con degli scatti repentini. I suoi occhi per quanto tentassero si restare spalancati si arrossavano sempre di più, si incrociavano e le lettere stampate, sempre più sfocate, si sovrapponevano. 
Un rumore sordo, un dolore lancinante alla fronte. Jean si era addormentato di botto sul libro di filosofia teoretica, e l'impatto con il duro tavolo della biblioteca delle Oblate era stato lancinante. Si massaggiò con vigore il punto dolorante, l'occhio semichiuso, l'imprecazione stretta fra i denti. Chiuse con rabbia il tomo che gli stava davanti con fare altezzoso, ma se ne pentì subito. Il rumore dei due chili di fitte pagine che si chiudevano rapidamente fecero voltare di scatto tutti i presenti, che lo guardarono con occhi truci. Jean arrossì, si alzò di fretta, fece cadere maldestramente alcune fotocopie che lo costrinsero a piegarsi per farne cadere altre, e si allontanò con passo svelto.
 Fuori l'aria era frizzante. Il pungente vento di Dicembre avvolgeva gelido la città che a quell'ora sembrava già addormentata. Mettendo un passo nervoso dietro l'altro attraversò piazza Duomo, ignorando le bellezze brunelleschiane che altezzosamente lo osservavano. Imboccò Via de' Cerretani, si maledì.
Maledì il suo ultimo anno di vita, passato ad inseguire esami universitari per lui incomprensibili, in cui era riuscito a strappare poco più di diciotto, maledì il suo ultimo anno di liceo classico, in cui era stato così insicuro e fragile. Maledì il suo sessanta alla maturità. Maledì la facoltà di Filosofia, in via Bolognese.
Gli scivolò dalle mani la Critica alla Ragion Pura di Kant, che rovinò a terra in un tonfo sordo. Imprecò, con voce forte e piena stavolta. Si fermò ad osservare il mattone malamente adagiato sul sampietrino. Rimase immobile per alcuni minuti poi alzò lo sguardo, e lasciò lì dov'era Kant e le sue speculazioni filosofiche. Si avviò verso la stazione dei tram con un senso di rabbia ed inquietudine che gli attanagliavano l'anima.
Arrivò al suo appartamentino nella zona universitaria verso le otto, con nello stomaco niente di più che un pezzo di schiacciata preso nel forno sotto casa. Appoggiò le chiavi sulla credenza, lanciò malamente il suo zaino ai piedi dell'appendiabiti ed entrò in camera sua senza salutare Checco, il suo coinquilino. Si sedette sul letto, la faccia tra le mani.
Il pensiero di Jean corse più veloce del vento. Tra i suoi ricordi. Terribile, l'ultimo anno di liceo. Passato tra l'ansia per il voto di esame e lo schifo per un sistema scolastico da lui sempre odiato. Non ce l'aveva mai fatta, la presenza dei voti come strumento di valutazione di una persona lo aveva sempre bloccato, facendolo entrare nel gruppo dei mediocri. Poi l'esame era andato, come tutto. Più bene che male, certo, ma era andato, con suo grande sollievo. Durante l'estate Jean aveva pensato molto a cosa fare della sua vita, ma aveva deciso di non seguire il suo desiderio. Tutti da lui, familiari, amici, ragazza, si aspettavano che facesse qualcosa di importante nella sua vita, non il cuoco. Avrebbe dovuto far fruttare i cinque anni passati su greco, sul latino e sulle scienze. Fare qualcosa che lo rendesse una persona con la p maiuscola. O con la s maiuscola, come pensava Jean. Il cuoco è una professione mediocre.
Non ce l'aveva fatta a far valere i suoi desideri. Lui, timido e deboluccio, aveva assentito ai desideri del babbo e della mamma. Aveva detto sì ai consigli imposti della sua ragazza.
E così si era ritrovato a studiare filosofia, per poi prendere un improbabile Master in giornalismo. Per diventare un facoltoso cittadino degno di rispetto.
Era ancora lì Jean, con le mani che sfregavano le guance smunte, gli occhi chiari, i  capelli disordinati e corvini. Immaginava persone da conoscere, piatti esotici, profumi sconosciuti, città da vivere. Il telefono squillò. Era suo zio Pierre, chiamava da Marsiglia. Lo faceva spesso. Lo zio cercava sempre di stare vicino a Jean, cercava di aiutare il sogno del ragazzo. L'unico al mondo che lo avesse mai fatto.
Jean si tolse le mani dagli occhi e spinse il tasto verde. -Ciao zio.-
-Jean. Brutta giornata?-
-Come al solito, zio. Nulla al di fuori dell'ordinario.- Jean inziò ad arricciarsi il ciuffo sopra la fronte, un vizio che si portava dietro dalle ore interminabili passate sui banchi del liceo Dante.
-Credo sia ora di sfondarlo, il muro dell'ordinario. Tieniti forte, nipote, ho una splendida notizia.-


Continua...

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