martedì 29 novembre 2011

Terzo. Stasi.

Qualunque fosse la sua destinazione, qualunque meta lo costringesse ad affrettarsi, Jean aveva sempre amato camminare per le vie di Firenze. Amava passeggiare senza pensare a niente, odorando i profumi che arrivavano dai bar e dalle librerie, guardando le persone che camminavano con i volti scuriti dalle preoccupazioni, sentendo il frizzante vento autunnale sul viso. La sua mente si svuotava di tutto, si spegneva. Solo i sensi lavoravano a pieno regime, disordinatamente. Magnificamente.
Anche in quel momento si stava godendo la sua camminata, benché la destinazione fosse tutt'altro che idilliaca. Dopo l'amabile merenda con Laura stava camminando verso Piazza San Marco, poi l'autobus numero sette fino alla campagna tra Fiesole e Firenze, dove avevano casa i suoi genitori. Una bella villa in via dei Ferruzzi, quattrocento metri quadri di splendente solennità. Suo padre l'aveva ereditata da suo nonno, pioniere dell'industria tessile di Prato. L'avevano mantenuta grazie agli impieghi dei suoi genitori. Il padre dirigente della banca più importante della città, la madre neurologa laureata alla Sorbona, poi emigrata in Italia, e ora primario al Careggi.
Tutte le volte che entrava in quella casa capiva che non avrebbe mai raggiunto il livello dei genitori, che non ci sarebbe mai riuscito, pur provandoci. Ma la verità era che non gli interessava minimamente. La ricchezza, la bella vita, la società borghese fiorentina avevano provocato in lui sin da bambino una forte repulsione, quasi un ribrezzo. Ma questo ai suoi genitori non l'aveva mi detto.
Non ce l'aveva mai fatta.
E allora giù, sin dall'infanzia, con vestiti firmati, cene con amici dottori o avvocati e con giornate passate a giocare da solo in salone, perché fuori era pericoloso.
Non ci era mai riuscito.
Arrivò alla fermata dell'autobus che era quasi buio. Il babbo e la mamma volevano parlare di quest'idea del cuoco. Della cattiva influenza dello zio Pierre, il fratello cattivo della mamma. Jean aveva già l'acido nello stomaco, non gli andava proprio. Da quando abitava da solo evitava di passare dalle parti di Fiesole il più possibile, anche se le cene del giovedì erano ancora obbligatorie, in casa Dandini.
Jean Dandini, seduto ad aspettare l'arrivo del numero sette, tirò fuori dallo zaino Delitto e Castigo, di  Dostoevskij. La sua passione, i romanzi russi. Insieme alla cucina, ovviamente. Li aveva conosciuti durante gli anni bui del liceo, e non li aveva più lasciati. C'era qualcosa nello scrivere di Tolstoj, Dostoevskij e Turgenev che lo catturava, lo sollevava, lo spostava in un'altra dimensione. Le meravigliose descrizioni della campagna russa, gli splendidi dialoghi, l'atmosfera sublime. Pura bellezza estetica.
Lesse un paio di pagine, ma non ce la fece. Un senso di vuoto, di ansia gli attanagliava lo stomaco. Il fatto di essere in stasi lo uccideva. Il solito effetto che gli facevano i colloqui con i suoi genitori. Chiuse il libro e aspettò l'autobus massaggiandosi le tempie.
Arrivò dopo dieci minuti, Jean salì con lo sguardo fisso a terra.


Continua...

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